«Das Leben der Erkenntnis ist das Leben, welches glücklich ist, der Not der Welt zum Trotz» (Ludwig Wittgenstein, Tagebucheintrag vom 13.8.16).


«E se qualcuno obietta che non val la pena di far tanta fatica, citerò Cioran (…): “Mentre veniva preparata la cicuta, Socrate stava imparando un’aria sul flauto. ‘A cosa ti servirà?’ gli fu chiesto. ‘A sapere quest’aria prima di morire’”» (Italo Calvino, chiusa di "Perché leggere i classici").


«Neque longiora mihi dari spatia vivendi volo, quam dum ero ad hanc quoque facultatem scribendi commentandique idoneus» (Aulo Gellio, "Noctes atticae", «Praefatio»).


sabato 11 febbraio 2012

NOZIONI ESSENZIALI DI FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO DA FREGE A SCHLICK






1. FREGE



1.1 Sinn e Bedeutung nei nomi propri


Secondo Frege (Über Sinn und Bedeutung, 1892), al segno di un “nome proprio” (che comprende sia i nomi veri e propri, come “Aristotele”, sia ciò che Russell chiamerà “descrizioni definite”, come “Lo scolaro di Platone”, e che oggi chiamiamo di solito “termine singolare”, ovvero espressione che designa un unico oggetto) sono associati sia una denotazione (Bedeutung), cioè il determinato oggetto designato, sia un senso (Sinn), che esprime il modo in cui l’oggetto è dato, e che può essere considerato come il contenuto cognitivo (oggettivo) che un parlante afferra per il fatto stesso di conoscere la lingua in cui il segno è espresso. In tal modo, al segno corrisponde un determinato senso, e questo determina la denotazione corrispondente. Viceversa, a un medesimo oggetto denotato sono associati diversi segni (almeno tanti quante sono le lingue naturali), e un medesimo senso può essere espresso in modi diversi in lingue diverse, e persino all’interno della stessa lingua. Ad esempio: le espressioni “La stella del mattino” e “La stella della sera” hanno identica denotazione (il pianeta Venere), ma sensi diversi, dato che esprimono proprietà diverse del pianeta dal punto di vista della Terra. D’altra parte, all’interno dell’italiano, “La stella del mattino” e “Fosforo” (nonché “La stella della sera” ed “Espero”) hanno non solo identica denotazione ma anche identico senso, e ciò che cambia è solo il mero ‘segno’ linguistico.



1.2. La teoria della presupposizione


Secondo Frege, quando noi affermiamo qualcosa, presupponiamo implicitamente che i nomi propri usati nel nostro enunciato abbiano una denotazione, cioè che sia vera la proposizione che afferma l’esistenza dell’oggetto denotato dal nome proprio (anche se questa proposizione non fa parte del senso del nostro enunciato); d’altra parte è tipico della imperfezione delle lingue naturali il fatto che in esse certe espressioni siano solo apparentemente dei nomi propri dotati di denotazione, per cui gli enunciati in cui ricorrono, per il principio di composizionalità, non possono avere a loro volta una denotazione, che nel loro caso è per Frege il valore di verità (il Vero o il Falso). La teoria della ‘presupposizione’ dice che un enunciato E1 presuppone un enunciato E2 quando sia la verità che la falsità di E1 implicano la verità di E2. In altri termini, E2 è l’enunciato che deve essere vero affinché E1 abbia un valore di verità; e se E2 è falso allora E1 è indecidibile, cioè (eventualmente) ha solo un senso, se esprime un pensiero, ma non una denotazione (cioè un valore di verità). Ad esempio, dicendo “Keplero morì in miseria” (E1), noi presupponiamo che “Keplero” sia un nome denotante, ovvero, dato che con questo nome intendiamo, tra l’altro, lo scopritore della forma ellittica dell’orbita dei pianeti, che l’enunciato “Ci fu un individuo che scoprì la forma ellittica dell’orbita dei pianeti” (E2) sia vero, anche se il suo senso non è contenuto in quello di E1. D'altra parte, se diciamo “Ulisse sbarcò a Itaca immerso nel sonno” (E1), pur comunicando un pensiero (il senso dell’enunciato), non possiamo pronunciarci sul suo valore di verità, dato che in E1 ricorre almeno un nome proprio (“Ulisse”) privo di denotazione, ovvero dato che la proposizione che asserisce l’esistenza di Ulisse (il nostro E2 ) è falsa.



1.3. Senso e rappresentazione


Frege distingue nettamente il “senso” dalla “rappresentazione” connessa a un segno. Il senso ha una dimensione oggettiva, perché è ciò che parlanti diversi afferrano quando comunicano e si comprendono, e inoltre è ciò che rimane invariato nella traduzione da una lingua all’altra (per un italiano “cavallo” ha lo stesso senso che per un inglese ha “horse”). La rappresentazione connessa a un segno è invece, per Frege, qualcosa di soggettivo e di mutevole, perché coincide con l’immagine interna che un individuo associa al segno e che dipende dai ricordi di impressioni sensibili, dalle attività interne ed esterne esercitate, nonché dai sentimenti. Nel famoso esempio di Frege, se si guarda la luna col cannocchiale, la luna stessa è la denotazione (reale), l’immagine restituita dall’obbiettivo (oggettiva e accessibile a diversi osservatori) è il senso, mentre l’immagine che si imprime sulla retina (soggettiva e propria a ciascun osservatore) è la rappresentazione.



1.4. Predicati, concetti e funzioni


Per quanto riguarda i predicati, cioè le espressioni del tipo P(x) (“x è un uomo”, “x è la capitale della Francia”, ecc.) o R (x,y) (“x è il padre di y”, ecc.), in Funzione e concetto (1891) Frege applica ad essi la distinzione di “Sinn” e “Bedeutung” nel seguente modo. Il loro senso è la proprietà (se hanno un solo posto d’argomento) o la relazione (se hanno più di un posto d’argomento) da essi espressa, mentre la loro denotazione è il concetto associato, che per Frege coincide con quel particolare tipo di funzione che ha come valori solo valori di verità. In matematica, com'è noto, le funzioni possono avere come valori anche dei numeri: f(x) = x + 1 ha come valore l’1 per x = 0, il 2 per x = 1, ecc. Viceversa, un'equazione è una funzione che assume il valore Vero quando l'incognita ha il valore di una "soluzione", mentre assume il valore Falso per ogni altro valore (l'insieme dei valori della funzione al variare dell'incognita è chiamato da Frege “decorso di valori” della funzione). In tal modo, per Frege i concetti, cioè le funzioni che costituiscono le denotazioni dei predicati, sono delle entità ‘insature’, ovvero incomplete; ad essere ‘sature’ sono le loro estensioni, cioè i loro decorsi di valori al variare dell’argomento x, perché costituiti da oggetti (Vero, Falso, Vero, …). Ad esempio, se P(x) = “x è un uomo”, esso denota un concetto-funzione il cui valore è il Vero quando x è un individuo del genere umano, e il Falso quando x varia su oggetti non umani.



1.5. Il principio di sostituibilità e i suoi limiti di applicabilità nei contesti indiretti


I contesti indiretti (di cui fanno parte quelli riconducibili a formule come “A crede che p”) hanno posto delle difficoltà alla definizione fregeana di “Sinn” e “Bedeutung” per enunciati dichiarativi. Per questi ultimi il senso è il pensiero oggettivo espresso, mentre la denotazione è il valore di verità (il Vero se l’enunciato è vero, il Falso se l’enunciato è falso); per essi valgono il principio di composizionalità, stando al quale il valore semantico (senso o denotazione) dell’intero è funzione del valore semantico delle parti, e il principio di sostituibilità (già enunciato da Leibniz, e da Frege stesso citato), stando al quale il valore di verità di un enunciato non cambia quando a una sua parte se ne sostituisca un’altra avente la stessa denotazione e un senso diverso. Ad esempio, il valore di verità dell’enunciato “La stella del mattino è più vicina al sole rispetto alla terra” è identico al valore di verità dell’enunciato “La stella della sera è più vicina al sole rispetto alla terra”, perché “La stella del mattino” e “La stella della sera” hanno la stessa denotazione ma diverso senso. Tutto questo, però, incorre in qualche difficoltà nei contesti indiretti, perché la denotazione (valore di verità) di “A crede che p” non è funzione della denotazione (valore di verità) di p. Come dice Frege, in questi casi la verità dell’intero è “indifferente” se il pensiero espresso da p sia vero o falso. Di conseguenza, quando è inserito in un contesto indiretto, il costituente proposizionale p non denota la sua denotazione abituale (un valore di verità), ma il suo senso, cioè il pensiero da esso espresso (denotazione indiretta). In tal modo Frege salva il principio di sostituibilità nei contesti indiretti, purché la sostituzione avvenga tra costituenti proposizionali che abbiano non la stessa denotazione abituale (valore di verità) ma la stessa denotazione indiretta, cioè lo stesso senso abituale (pensiero espresso).
Ad esempio, consideriamo questi due enunciati:

(1) Copernico credeva che le orbite dei pianeti fossero cerchi
(2) Copernico credeva che la terra ruotasse attorno al sole

Il costituente p dell’enunciato indiretto (1) è “Le orbite dei pianeti sono cerchi”, mentre quello dell’enunciato (2) è “La terra ruota attorno al sole”. Ora, il costituente di (1) è falso, mentre il costituente di (2) è vero, eppure (1) e (2) sono entrambe vere. Questo perché, appunto, la loro verità non dipende composizionalmente dalla verità o dalla falsità del costituente p. Quello che determina la verità di (1) e (2) è il fatto che Copernico credesse effettivamente nella verità di ciò che è espresso nel pensiero (cioè nel senso) dei loro costituenti, e il loro effettivo valore di verità non entra in gioco nel valore di verità delle proposizioni indirette in cui compaiono. Che la composizionalità e la sostituibilità non valgano in questi contesti, si vede subito dal fatto che il valore di verità di (1) e (2) può cambiare se in essi sostituiamo costituenti proposizionali di valore di verità identico a quello dei loro rispettivi costituenti. Infatti, se in (1) mettiamo “Le orbite dei pianeti sono parabole” (che ha lo stesso valore di verità di “Le orbite dei pianeti sono cerchi”, cioè il Falso), otteniamo:

(3) Copernico credeva che le orbite dei pianeti fossero parabole

che è falsa. Analogamente, se in (2) mettiamo un altro costituente vero, come “L’orbita della terra è ellittica”, avremo:

(4) Copernico credeva che l’orbita della terra fosse ellittica

che è falsa. Viceversa, poiché secondo Frege in (1) e (2) i costituenti denotano non il loro valore di verità ma il loro senso (denotazione indiretta), è possibile sostituire in essi, salva veritate, dei costituenti che abbiano lo stesso senso abituale, cioè la stessa denotazione indiretta. Ma egli non fu chiaro sulle condizioni di identità di senso per due enunciati diversi nella veste segnica (intuitivamente, un’espressione che abbia lo stesso senso di “Le orbite dei pianeti sono cerchi” potrebbe essere o una sua traduzione fedele in un’altra lingua o una sua riformulazione in italiano del tipo: “Le traiettorie dei pianeti sono circolari”).



2. RUSSELL




2.1. Il problema della indecidibilità negli enunciati contenenti nomi privi di denotazione: la soluzione di Frege e quella di Russell


La distinzione tra “Sinn” e “Bedeutung” per i nomi propri e per gli enunciati condusse Frege alla teoria della presupposizione (ogni enunciato decidibile presuppone la verità di uno o più enunciati che asseriscono l’esistenza degli oggetti denotati dai nomi che compaiono nell’enunciato stesso), la quale implica che un enunciato contenente almeno un nome privo di denotazione – tale cioè per cui la sua presupposizione sia falsa - sia a sua volta privo di denotazione, che per l’enunciato è il valore di verità (esso, quindi, è né vero né falso). Nel saggio del 1905 intitolato On Denoting, Russell dichiarò insoddisfacente la soluzione fregeana perché, tra l’altro, essa comportava la violazione del principio del terzo escluso (per cui ogni enunciato dichiarativo ben formato è o vero o falso, senza una terza possibilità). La soluzione di Russell si basa sulla sua particolare teoria delle “descrizioni”, cioè di quei “sintagmi denotativi” della forma “Una cosa così e così” (descrizioni indefinite, come “Un uomo”) e “La cosa così e così” (descrizioni definite, come “L’autore dei Promessi sposi”). Consideriamo l’enunciato “L’attuale Re di Francia è calvo”. Nell’analisi di Frege esso è indecidibile perché il nome proprio “L’attuale Re di Francia” è privo di denotazione, e quindi l’enunciato che ne costituisce la presupposizione (“Esiste attualmente il Re di Francia”) è falso. È importante a questo punto tenere presente che per Frege il pensiero espresso nell’enunciato presupposto (cioè il suo senso) non è parte del senso dell’enunciato che lo presuppone. Il punto-chiave della soluzione di Russell muove proprio da qui. Secondo Russell, infatti, quello che per Frege è l’enunciato esistenziale presupposto fa parte dell’enunciato che lo presuppone come suo costituente essenziale. Da che cosa lo si vede? Lo si vede analizzando l’enunciato di partenza e scoprendo dietro la sua ‘forma grammaticale’ apparente la sua vera ‘forma logica’, che nel caso di enunciati del tipo di quello visto (cioè della forma “L’oggetto che ha la proprietà F ha la proprietà G”) è un enunciato complesso costituito dalla congiunzione di tre enunciati più semplici:

a) esiste almeno un x che ha la proprietà F (nell’esempio: esiste almeno un individuo che attualmente è il Re di Francia);
b) al massimo un x ha la proprietà F (nell’esempio: al massimo un individuo è attualmente il Re di Francia)
c) x ha la proprietà G (nell’esempio: questo individuo è calvo).

Ora, poiché ogni enunciato della forma “L’oggetto che ha la proprietà F ha la proprietà G” equivale, secondo Russell, alla congiunzione logica di a) , b) e c), e poiché a) e b) non fanno altro che asserire l’esistenza e l’unicità dell’oggetto che gode della proprietà F (sono in qualche modo il vecchio ‘presupposto’ di Frege), è evidente che la loro falsità rende falso tutto l’enunciato. Ecco perché, per Russell, l’enunciato “L’attuale Re di Francia è calvo” è falso (e non indecidibile, come per Frege): poiché esso, analizzato, diventa qualcosa come “Uno e un solo individuo è l’attuale Re di Francia, e questo individuo è calvo” (si sono riunite insieme le tre componenti), è chiaro che esso è falso, perché è falso il suo primo componente, cioè il congiunto che asserisce l’esistenza e l’unicità dell’attuale Re di Francia.



2.2. La teoria delle descrizioni


Come visto sopra, la teoria delle descrizioni di Russell è legata all’esigenza di risolvere alcune difficoltà in cui incorre la semantica di Frege. Una descrizione è un sintagma denotativo di tipo nominale, e può essere definita (in tal caso ha la forma “La cosa così e così” e denota un oggetto definito: ad es. “L’attuale Regina d’Inghilterra”) o indefinita (in tal caso ha la forma “Una cosa così e così” e denota ambiguamente un oggetto imprecisato, non certo una moltitudine di oggetti, che sarebbe un oggetto definito: ad es. “Un uomo”). Pur avendo forma denotativa, non sempre le descrizioni denotano qualcosa: “L’attuale Re di Francia” e “Un unicorno”, secondo Russell, non è che denotino entità irreali, come pensava Meinong, ma semplicemente non denotano alcunché: esse sono descrizioni che non descrivono niente. A differenza di Frege, Russell distingue nettamente i nomi dalle descrizioni definite: “Umberto Eco” e “L’autore de Il nome della rosa”, pur riferendosi allo stesso individuo, non rispondono alla stessa grammatica logica (anche se a livello di grammatica superficiale hanno la stessa distribuzione sintattica, cioè possono ricorrere nei medesimi contesti frasali), perché mentre un nome è un simbolo semplice che designa direttamente e “di diritto” l’oggetto denotato, senza dipendere dal significato di altre parole (qui Russell anticipa in parte i teorici del riferimento diretto, e in particolare Kripke, che esplicitamente muove da lui, anche se gli esiti della sua teoria della designazione “rigida”, nonché la sua semantica dei mondi possibili, sono estranei al realismo di Russell), una descrizione definita è un costrutto complesso il cui significato dipende in qualche modo dal significato prefissato dei termini semplici che lo costituiscono. Ciò spiega perché, sostituendo ad x in “x è un uomo” prima “Umberto Eco” e poi “L’autore de Il nome della rosa” otteniamo due enunciati simili nella forma grammaticale ma profondamente diversi nella forma logica. “Umberto Eco è un uomo” è un enunciato atomico della forma soggetto-predicato, non ulteriormente analizzabile. Invece “L’autore de Il nome della rosa è un uomo” è un enunciato complesso analizzabile nel modo visto nel punto precedente ed equivalente a quest’altro enunciato, in cui la complessità logica (congiunzione) è esplicita: “Una e soltanto una entità ha scritto Il nome della rosa, e questa entità è un uomo”.
Con questa analisi delle descrizioni, Russell chiarisce il loro ruolo effettivo all’interno delle proposizioni enunciative. Secondo lui, quando esse compaiono come sintagmi nella forma grammaticale di un enunciato (come visto nell’esempio precedente), in realtà non hanno alcun significato, né sono degli autentici costituenti dell’enunciato, tant’è vero che nella forma logica analizzata di quest’ultimo scompaiono del tutto, come abbiamo visto. In tal modo Russell risolve sia il problema dei ‘nomi propri’ privi di denotazione di Frege, il quale era ricorso alla teoria della presupposizione, sia il problema degli ‘oggetti’ di Meinong (Sulla teoria dell’oggetto, 1904), il quale aveva considerato le descrizioni comunque come descrizioni di un qualche oggetto, e questo “oggetto” (distinto dall’“obbiettivo”, che indica il contenuto dei giudizi, ovvero lo stato di cose cui questi si riferiscono), poteva: 1) sussistere astrattamente (numeri, proprietà geometriche, relazioni; 2) esistere di fatto (“L’attuale Regina d’Inghilterra”); 3) ex-esistere di fatto (“Giulio Cesare”); 4) non esistere di fatto (“La montagna d’oro”); 5) non esistere di diritto, cioè essere addirittura impossibile (“Il quadrato rotondo”).


3. IL “PRIMO” WITTGENSTEIN




3.1. La teoria della raffigurazione

Nel Tractatus logico-philosophicus (1921-22) il giovane Wittgenstein avanzò la tesi secondo cui il pensiero è l’immagine logica dei fatti (prop. 3), e siccome per pensiero egli intendeva la proposizione munita di senso (prop. 4), il linguaggio sensato, inteso come l’insieme delle proposizioni munite di senso, viene ad essere un’immagine logica della realtà, intesa come la totalità dei fatti sussistenti e insussistenti (questi ultimi sono quelli la cui insussistenza è determinata dalla sussistenza di altri fatti). Questa teoria della raffigurazione implica dunque un isomorfismo (identità di forma) tra struttura del linguaggio e struttura della realtà. Così come una fotografia raffigura un fatto coi propri mezzi (essa è un’immagine delle relazioni logiche, spaziali e cromatiche del fatto ritratto), una proposizione raffigura un fatto coi propri mezzi, ovvero tramite l’unica cosa che può condividere con un fatto, e questa è la relazione più astratta possibile tra gli oggetti di cui il fatto è costituito, ovvero la sua forma logica. Poiché, dunque, una proposizione condivide con il fatto raffigurato solo la forma logica, essa è detta da Wittgenstein “immagine logica” del fatto. Naturalmente, ogni altra immagine (geometrica, fotografica, pittorica, ecc.) è anche un’immagine logica: l’immagine proposizionale, invece, è solo un’immagine logica. La relazione di raffigurazione sussiste solo tra la proposizione semplice, che è un nesso immediato di nomi, e il fatto semplice (“stato di cose”), che è un nesso immediato di oggetti (entità, cose): alla configurazione dei nomi nella proposizione corrisponde la configurazione degli oggetti nella situazione raffigurata dalla proposizione. I nomi non ‘raffigurano’ gli oggetti, ma ‘stanno per’ essi, li designano (fregeanamente, Wittgenstein dice che gli oggetti che costituiscono lo stato di cose sono la “Bedeutung” dei nomi che costituiscono la proposizione, ma contrariamente a Frege egli non attribuisce un “senso” ai nomi: il loro valore semantico è solo la loro denotazione).


3.2. Oggetti, stati di cose e fatti

Nel Tractatus, oggetti, stati di cose e fatti costituiscono la trama della realtà. Gli oggetti sono entità semplici e ultime, non ulteriormente analizzabili. Essi costituiscono la sostanza del mondo e la loro esistenza è necessaria, dal momento che se non esistessero, la sensatezza di una proposizione dipenderebbe dalla verità di un’altra proposizione, che asserisce l’esistenza degli oggetti di cui parla la prima (come si vede, Wittgenstein rifiuta la teoria fregeana della presupposizione). Gli oggetti hanno una “forma”, e questa dà all’oggetto la possibilità di entrare in una struttura, in una configurazione, cioè in uno stato di cose, come la maglia di una catena. Come esempi di “forma” degli oggetti Wittgenstein cita soltanto lo spazio, il tempo e la cromaticità (prop. 2.0251). Ciò implica che gli oggetti non sussistono mai isolatamente, ma solo in una connessione fattuale, per cui solo gli stati di cose, i nessi di oggetti, hanno una sussistenza isolata e indipendente (“Il mondo è la totalità dei fatti, non delle cose”, dice Wittgenstein nella seconda frase del Tractatus: prop. 1.1). Ogni fatto semplice e isolato è uno stato di cose. I fatti complessi sono collezioni di due o più stati di cose sussistenti. A livello linguistico, dato l’isomorfismo tra linguaggio e realtà, agli oggetti, agli stati di cose e ai fatti corrispondono rispettivamente i nomi (che designano gli oggetti), le proposizioni elementari o atomiche (che raffigurano proiettivamente gli stati di cose) e le proposizioni complesse o molecolari (che sono costituite da nessi logici di proposizioni atomiche, di cui sono funzioni di verità per mezzo dei connettivi logici noti: negazione, congiunzione, disgiunzione e implicazione).


3.3. Senso e condizioni di verità di una proposizione

Per Wittgenstein senso e condizioni di verità di una proposizione coincidono. Nel caso della proposizione elementare, il suo senso è lo stato di cose possibile che essa raffigura e di cui asserisce la sussistenza (prop. 4.031). Se questo stato di cose sussiste, la proposizione è vera, altrimenti è falsa. La proposizione, quindi, mostra il suo senso (prop. 4.022), ovvero cosa accadrebbe se essa fosse vera (e di conseguenza cosa accadrebbe se essa fosse falsa). Ma una proposizione elementare è anche funzione di verità di se stessa (prop. 5), e Wittgenstein chiama le possibilità di verità (in questo caso Vero o Falso) di una proposizione le sue “condizioni di verità” (propp. 4.41 e 4.431), aggiungendo che essa esprime le sue condizioni di verità: dire p, quindi, è come dire: “p è la proposizione che è vera quando p è vera e falsa quando p è falsa”, cioè (VF)(p) (cfr. prop. 4.442). In tal modo, dato che la proposizione elementare mostra il suo senso, cioè quale stato di cose sussiste se essa è vera, e dato che essa mostra anche le sue condizioni di verità, segue che senso e condizioni di verità coincidono. Discorso analogo vale per una proposizione complessa, che è funzione di verità delle proposizioni elementari che la costituiscono. Consideriamo la proposizione complessa “La penna è sul tavolo e il gatto dorme sotto il tavolo”. Essa mostra il suo senso, cioè da essa si vede quali stati di cose devono sussistere affinché essa sia vera. Questi stati di cose sono quelli raffigurati dalle due proposizioni elementari che la costituiscono: “La penna è sul tavolo” e “Il gatto dorme sotto il tavolo”. E siccome la proposizione è una congiunzione, i due fatti devono sussistere contemporaneamente affinché essa sia vera, cioè le proposizioni elementari che li raffigurano devono essere entrambe vere. In tutti gli altri casi la proposizione è falsa. D’altra parte, una congiunzione di due proposizioni elementari esprime la sua dipendenza verofunzionale dalle proposizioni elementari che la costituiscono, e come sappiamo Wittgenstein chiama “condizioni di verità” della proposizione le possibilità di verità delle proposizioni elementari che la costituiscono. Nel caso di una congiunzione del tipo “p&q” queste condizioni sono le seguenti: “p&q” è vera quando p è vera e q è vera, falsa quando p è vera e q è falsa, quando p è falsa e q è vera e quando p è falsa e q è falsa. Come si vede, dire che una proposizione esprime il suo senso è lo stesso che dire che essa esprime le sue condizioni di verità, e quindi senso e condizioni di verità coincidono.



4. SCHLICK e la verificabilità in linea di principio



Secondo la rigida interpretazione del primo neopositivismo (fine anni Venti), la prima frase della proposizione 4.024 del Tractatus, “Comprendere una proposizione è sapere che cosa accade se essa è vera”, equivale a dire che le condizioni di verità di una proposizione non sono altro che le condizioni della sua verificazione empirica tramite controlli sperimentali. Nel saggio Significato e verificazione (Meaning and Verification, 1936), Schlick precisò la posizione verificazionista mostrando che la verificabilità di cui parla il neopositivismo è una possibilità logica (cioè in linea di principio), non già empirica. Se così non fosse, enunciati esprimenti fatti empiricamente impossibili (almeno stando alle nostre conoscenze del mondo e delle leggi di natura) sarebbero privi di significato, e invece non è così. Se ad esempio diciamo: “Su Marte c’è un campo di margherite”, siamo perfettamente in grado di capire cosa stiamo dicendo, ovvero di sapere come starebbero le cose nel caso in cui la proposizione fosse vera, anche se allo stato attuale delle nostre conoscenze del sistema solare e della botanica il fatto da essa descritto è empiricamente impossibile, per cui essa è con ogni probabilità falsa (e questo possiamo asserirlo senza alcun bisogno di verificarla di persona e “sul campo”). Dicendo che “il significato di una proposizione è il metodo della sua verificazione”, Schlick si riferisce alla semplice “possibilità logica” della verificazione (che interessa il filosofo), e non alle circostanze empiriche in cui una proposizione sarebbe vera (questo è un problema dello scienziato). In tal senso, il significato di una proposizione è qualcosa che risulta stabilito immediatamente dalle regole d’uso delle parole che la costituiscono (stabilite dagli uomini per stipulazione), ovvero da ciò che Wittgenstein chiama la loro “grammatica” a partire dal suo ritorno alla filosofia alla fine degli anni Venti (Schlick stesso fa questo riferimento a Wittgenstein, ovvero alle discussioni avute con lui tra il 1929 e il 1932); e proprio quando un enunciato rispetta tali regole d’uso per i suoi termini (che sono le regole d’uso che ciascun parlante in genere possiede per averle apprese apprendendo la lingua che parla) esso risulta dotato di significato e quindi verificabile in linea di principio. Gli esempi di Schlick di enunciati inverificabili, e quindi privi di significato, sono infatti di questo tipo: “Il mio amico morì dopodomani”, “Il campanile è alto sia 100 piedi che 150 piedi”, “Il bambino era nudo ma indossava il pigiama”, dai quali si vede che egli aveva in mente proprio questioni di impossibilità logica, dovuta soprattutto alla violazione delle fondamentali regole semantiche d’uso di una lingua. D’altra parte, asserzioni come “I fiumi scorrono verso l’alto” e “Noi sopravviveremo al nostro corpo” egli le considera logicamente verificabili (infatti non è logicamente impossibile immaginare dei fiumi che invertano il loro corso o di assistere al proprio funerale) e quindi perfettamente in regola in quanto al significato: in particolare la prima è empiricamente falsa e la seconda è un’ipotesi empirica (e non metafisica, e quindi insensata, come pensavano altri positivisti meno “tolleranti” di Schlick, soprattutto nella prima fase del Circolo di Vienna).



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